2010, luglio 9. Dopocena.

La temperatura è salita. La notte sudo e dormo male.

Buona parte delle scatole “vestiti” è stata aperta e messa via. Un altro fatto.

Ho ritrovato cose che indossavo a vent’anni.

E’ a questo punto che percepisco il giro di boa. Non si torna indietro. Quella roba parla chiaro. Il tempo è passato e continuerà a farlo in una direzione prevedibile. Ovvio e bizzarro allo stesso tempo.

E tutte queste scatole (quelle aperte e quelle in attesa del loro turno) mi parlano del mio attaccamento ai miei desideri. Non ho mollato la presa fino a poco tempo fa, non ho rinunciato alla speranza di aprire e chiudere con questa parte della mia vita. Tutta questa roba mi parla della capacità di resistenza, di adattamento continuo, di inventare configurazioni possibili per la sopravvivenza, di volta in volta, nonostante la totale assenza di progettualità. L’obiettivo era sopravvivere. Portarmi avanti un giorno ancora, mettere da parte quello che non riuscivo a realizzare ma non cedere, non buttare via tutto. Tenere a margine e andare avanti. Guardo a quello che esce fuori e vedo forza e tanti , tantissimi errori. Tanto idealismo ed ingenuità.

In realtà mettendo da parte si perde qualcosa comunque, la pratica fa differenza. Vivere in eterna sospensione è una fuga dalla realtà. 

Aprire le scatole, significa anche seppellire i miei morti. Fermarmi e vivere i lutti, quelli veri e quelli simbolici.

La lucidità non è stata una mia peculiarità. Nè la capacità di fissare uno scopo e andare al punto. O solo raramente. Quello che ho fatto fin’ora è stato sopravvivere. Ma vale la pena? Tutta questa immensa fatica, tutti questi spostamenti ed esplorazioni continue…per cosa? Un’identità fluttuante che stringe sogni in mano. E il tempo inizia a “stringere”. Il tempo della sopravvivenza non può durare per sempre.